Ma ne siamo sicuri? Siamo proprio certi che il discrimen fra l’una e l’altra faccia dell’umanità stia tutto nella pulizia delle divise, nell’efficienza dei mezzi coercitivi, nella raffinatezza delle torture? Non starà da qualche altra parte, la differenza?
Personalmente, di fronte all’ebetudine sorridente di Fede (Rete4) e al viscido ressentiment di Barenghi (Manifesto) — guaiolanti e sbavanti per la gioia di compiacere il padrone — non ho potuto fare a meno di pensare agli esuberanti frequentatori dei circhi romani, esaltati dal sangue ed eccitati dall’ultima umiliazione inferta ai perdenti. Non credo che le cose siano cambiate molto, da allora. Anche adesso, in questo terzo millennio cominciato sotto auspici quanto mai infausti, c’è bisogno di pane e giochi per controllare una società sempre più magmatica e sfuggente.
Ma allora, perlomeno, una cosa era il pubblico del Colosseo e un’altra i governanti: tant’è vero che, a partire da Cesare Augusto, per fini etico-didattici la nascente cultura europea ripete spesso e volentieri la contrapposizione fra la crudezza del “Vae victis!” gridato dal barbaro Brenno e il pacato “parcere victis” che fonda al contempo la virtus e la pietas del cittadino romano. Il minaccioso “guai ai vinti!” non può trovare posto in un mondo che ha visto nascere e ha coltivato per secoli quelle norme di giustizia sulle quali ancora si regge gran parte della giurisprudenza moderna: se è vero che bisogna (è lecito) abbattere il tiranno e schiacciare l’arroganza dell’oppressore, è altrettanto vero che il vinto, spogliato di tutto e ridotto a meno che niente, va risparmiato e tutelato, per evitare che la vendetta, magari privata, possa rimpiazzare l’amministrazione della giustizia — certo implacabile, forse durissima, ma contenuta entro limiti precisi e verificabili.
Quei limiti che oggi non si vedono da nessuna parte. E che sicuramente non rientrano nell’angusto panorama culturale e mentale dei nuovi padroni del mondo — gli Stati Uniti, dico.
Profondamente convinti di occupare il posto centrale «nell’ambito della vasta prospettiva di un disegno divino» (secondo le parole pronunciate dallo stesso Bush il 14 settembre 2001 nella National Cathedral di Washington), gli Usa si ergono di fronte a un mondo divenuto “cosa loro” nel nome di un ecumenismo integralista che niente e nessuno, almeno per il momento, sembra in grado di arginare. Anche perché il fondamentalismo religioso che ispira la politica (interna ed estera) americana a partire dall’epoca del presidente Reagan si richiama senza mezzi termini all’Antico Testamento: nel quale, com’è noto, i richiami alla vendetta e allo sterminio del nemico vinto si sprecano. Questa è la parola di Dio, quel «Dio che fa la mia vendetta e mi sottomette i popoli» (2Samuele 22:48 e Salmi 18:47); quel Dio che non può non stare dalla parte degli Stati Uniti, se perfino Geremia profetizza: «Questo giorno, per il Signore, per il DIO degli eserciti, è giorno di vendetta, in cui si vendica dei suoi nemici. La spada divorerà, si sazierà, si ubriacherà del loro sangue; poiché il Signore, DIO degli eserciti, immola le vittime nel paese del settentrione, presso il fiume Eufrate» (Geremia 46:10).
Su queste basi, sembra difficile credere che la questione Iraq possa mai trovare una soluzione secondo giustizia: perché secondo ingiustizia è cominciata e viene perpetuata. L’iniquità delle sanzioni varate e applicate per anni contro una popolazione civile inerme e già costretta a fare i conti con un regime dittatoriale; l’assoluta illegittimità dell’aggressione iniziata nel marzo 2003; e ora la condanna senza appello pronunciata da Bush e dai suoi accoliti contro l’hic et nunc vinto ex dittatore — tutti questi fattori concorrono a farci ritenere senza ombra di dubbio che qualunque provvedimento a carico di Saddam Hussein e degli altri iracheni sequestrati dall’esercito occupante andrà contro ogni legge internazionale e calpesterà a 360 gradi ogni diritto umano.
C’è il fondato sospetto che il mondo stia per assistere a una nuova Norimberga — uno stupro giuridico già condannato all’epoca e duramente stigmatizzato negli anni a venire. A Norimberga, come anche a Tokyo, non ci si limitò a costituire un tribunale “internazionale” che giudicasse secondo legge e coscienza i responsabili di crimini odiosi: si vararono per l’occasione leggi retroattive e si fece in modo che il collegio giudicante fosse composto esclusivamente dai vincitori. Il 2 ottobre 1946, giorno successivo a quello della sentenza, l’americano “Chicago Tribune” così commentava: «La triste verità è che nessuno dei vincitori è innocente dei crimini che sono stati attribuiti agli sconfitti», e ospitava questa dichiarazione di William L. Hart, giudice alla Corte suprema dell’Ohio: «Sia
È chiaro che la storia non insegna niente: se non c’è più stata un’altra Auschwitz, non per questo negli ultimi cinquant’anni non si sono massacrati milioni di innocenti; e se Norimberga non ospiterà un altro tribunale, non per questo i vincitori di turno (sempre gli stessi, a quanto pare) rinunceranno a esercitare il loro strapotere che prevede, non soltanto per gusto personale ma per edificazione delle genti, l’umiliazione e l’annientamento dei vinti, spogliati di ogni dignità, reificati e ridotti a non-persone — qualcuno ricorda Orwell?
Non è questa, la civiltà che vogliamo; e da quest’Europa smarrita che coltiva impossibili sogni di grandezza si levano, forse non molte ma certo chiare e forti, le voci di quanti pretendono giustizia e non vendetta. Nel nome di una resistenza all’oppressore, qualunque esso sia, per la libertà dei popoli e delle coscienze.
(19 dicembre 2003)
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